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È sempre lo stesso meccanismo, prima guardo il paesaggio, lo dipingo, indago i singoli elementi che lo compongono, fino a focalizzare l’attenzione su di un particolare: gli alberi. Attirata dal profumo della resina e dal fruscio melodico delle loro chiome, mi incanto a vederli nudi d’inverno quando la neve li copre con fare materno; ma, in fondo, sono le loro cortecce ad attirare la mia attenzione, a riecheggiare nella mia mente, nel mio sentire. Dall’albero fantasma australiano, alle nostre betulle ecco che le cortecce si fanno dapprima texture sulla tela, per poi delineare forme geometriche sempre più definite, sovrapponendosi l’una sull’altra, come a voler mostrare una vita vissuta tra mille pagine e su più piani. Per uno slittamento di significato, le cortecce rappresentano la maschera che ognuno di noi indossa, anzi, le maschere, ognuna per l’occasione “giusta”, come l’abito della festa. È un’indagine lunga e meticolosa, durata dal 2004 al 2008. Le cortecce sviscerate come al microscopio in un’indagine introspettiva simbolica.
Conoscerle, dipingerle, fino a coglierne il significato e capire che non servono più. Le cortecce ora diventano volti e la spinta è quella di andare oltre l’apparenza, oltre ciò che sembra ogni individuo al primo sguardo, l’invito è quello di andare oltre il visibile, oltre la “corteccia“ di ognuno di noi, fino a cogliere gli aspetti più profondi, essenziali. Dopo il viaggio nei volti umani, lo sguardo torna nuovamente sui paesaggi, i terrazzamenti valtellinesi, il mare, il lago. Adesso ad essere indagata è la terra, la sua materia, la sensazione che dà camminandoci sopra.
Guardando la terra, ora un po’ più da lontano, la tela diventa spiaggia, crateri, campi arati, orizzonti, tracce, segni, solchi. I solchi nel terreno sono come graffi nella nostra anima, identificano il nostro “dna”, unico e inimitabile come del resto le nostre impronte digitali. Impronte nel terreno, impronte sulla pelle che identificano ogni persona come essere umano unico, inimitabile ed irripetibile. Ora l’invito al fruitore diventa quello di avvicinarsi al microscopio, e dopo aver attraversato la prima corteccia, andare oltre l’epidermide, alla ricerca della vera essenza.
Quando dipingo mi immergo in un lungo respiro solitario che mi permette di andare in profondità scendendo nell’intimo di me stessa, senza distrazioni, scoprire prospettive nuove che ispirano magia da trasformare sulla tela.
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