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Credo che sia giunto il momento di fare un’attenta e profonda analisi delle mie opere per chiarire ai molti che affermano in modo superficiale che esse sono informali mentre queste sono astratte.
Innanzi tutto non mi piace la parola “informale” in quanto ha in se il significato di qualcosa senza forma, quindi senza pensiero e perciò di qualcosa “nato per caso” da una sensazione.
Le mie opere e in modo particolare mi riferisco ai Paesaggi Astratti, si basano su strutture geometriche precise che poi esplodono e deflagrano in un’altra dimensione, dimostrando l’inafferrabilità della vita. Esse non parlano di sentimenti, passioni, esperienze ma, pur partendo da esse, pongono dei quesiti aperti e sono uno sguardo di speranza su di un mondo da ricostruire.
L’informale nasce dalla crisi morale, politica e ideologica della seconda guerra mondiale come denuncia dell’incomunicabilità. Siamo tra gli anni cinquanta e sessanta – la prima opera informale è addirittura del 1945 di Wols – ed è logico che dopo 70 anni (!) le miei opere non possono, non devono e non vogliono parlare ancora di questo, nonostante le analogie della crisi con la situazione che stiamo vivendo. Ma è dalla presa di coscienza di questa situazione che il mio lavoro nasce e si sviluppa, scaturendo (se vogliamo accontentare chi le colloca nella pittura informale) dalla denuncia dell’incomunicabilità ma per dire che c’è ancora una speranza di resurrezione per l’umanità.
In questo discorso mi voglio occupare solamente di quello che è l’informale materico perché è questo che può trarre in inganno colui che guarda la mia opera superficialmente. E’ vero sì che le mie opere trasudano di quell’energia creatrice che si sviluppa dal gesto dello scegliere e accostare materie diverse ma questa non è fine a se stessa ma è solo il primo passo. Anzi, pensando al mio modo di procedere, è il secondo passo in quanto gli accostamenti avvengono su strutture geometriche astratte precise. Gesti liberi, spontanei, certo ma generati da anni di meditazione e dallo studio compositivo, mai sogni o fantasie ma sguardi disincantati sul mondo attuale, sguardi proiettati verso un futuro, migliore? …verso il futuro. Un orizzonte, una luce, un punto evidenziato sulla tela che si muove e che sposta il punto focale prospettico dell’opera accompagnando lo sguardo dell’osservatore all’interno della tela, alla ricerca di qualcosa che c’è, che ci fa intuire la sua presenza, la sua energia, la sua essenza. Qualcosa che c’è ovunque, che è anche in noi stessi, magari si trova scavando sotto la sabbia che è vicino a noi, in primo piano, magari sotto ad un sasso come fanno le rane, oppure giù là, oltre all’orizzonte, a volte nero, altre buio e tempestoso, altre rigido come un muro o sinuoso e accogliente come un tramonto.
Il vocabolario dell’italiano non rende tutti gli italiani poeti danteschi. Tutti i pittori che usano colori ad olio non sono rinascimentali e così anch’io che uso il lessico della materia non sono informale.
Perché l’uomo ha bisogno di definizioni e categorie? Sarà forse per la propria sete di certezza? Perché ha la necessità di riconoscere qualcosa che ha già acquisito come propria esperienza? Le esperienze e le acquisizioni culturali danno sicurezza, forse permettono di non sbagliare come le regole e la legge. Ci consentono anche di camminare solo su strade e sentieri già percorsi. Non ci permettono di fare un passo nel buio, un salto nel vuoto, il viaggio di non ritorno. Per la nostra sicurezza ci hanno insegnato che non si può fare. Ma chi lo ha fatto è perché non sapeva che era impossibile da fare e perciò lo ha fatto, e ha saltato.
Quando dipingo mi immergo in un lungo respiro solitario che mi permette di andare in profondità scendendo nell’intimo di me stessa, senza distrazioni, scoprire prospettive nuove che ispirano magia da trasformare sulla tela.
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