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Essenza e Materia
Essenza e Materia non è solo il nome prescelto dall’artista per ovviare alla necessità di identificare una mostra: intrigante titolo attira curiosi. Non è neanche il vuoto applicarsi di parole – fin troppo pregne di significato – all’arte, con il fine di suggerire al fruitore una non meglio definita dimensione altra.
Essenza e Materia è una sintesi, o meglio, una ricerca del momento della sintesi, tra due dei più indagati interrogativi metafisici.
L’artista non fornisce risposte, mette a disposizione il suo sguardo e la sua capacità peculiare di tradurre lo sguardo stesso in immagine dando in prestito una possibile chiave di lettura del mondo circostante.
La materia smette qui di essere materia per riconciliarsi con l’essenza in una realtà che è sì materiale, certo, ma che si spinge al di là di se stessa costringendo l’immagine a rinascere dalle proprie macerie.
Sabbia, stucco, catrame, ghiaia, colla, carta, terra e colore si fondono insieme in una stratificata riproduzione di paesaggio informale che, da luogo fisico, diventa sulla tela astratta meta dell’anima. Materiali un po’ snobbati, certo non nobili, calpestati tutti i giorni nella quotidianità cittadina o marittima, spesso ignorati perché troppo presenti, raramente ammirati per la bellezza anziché per l’utilità, rinascono in un nuovo splendore: incanta infatti la lucentezza della pece sulla tela e si impone la presenza, prepotente, di ogni singolo sassolino di ghiaia, verticale su reti di metallo ramato.
La sede dell’esposizione non si presenta come bella cornice o mero contenitore bensì dialoga con le opere che ne diventano in questo modo parte integrante. I chiaroscuri della facciata gotico-romanica, le colonne e i rosoni suggeriscono all’artista il ritmo da seguire.
Entrando tra le mura centenarie del vecchio palazzo del comune, la scalinata di pietra traballante lascia indovinare al massimo la presenza costante di uno stormo di piccioni, non fa certo presagire nulla di ciò che si presenterà al suo interno. La porta semichiusa quasi intimorisce..”Ma è aperto?” “Sono nel posto giusto?”
Piano piano finalmente si apre e, per il contrasto con l’esterno, si resta quasi accecati dall’oscurità della sala. Gli occhi ci mettono un po’ ad ambientarsi, l’atmosfera è mistica, quasi sacerdotale, si avverte subito una sensazione di straniamento e, per una sorta di tacita legge morale – infranta solo dai più recidivi – ci si impone di non rompere il silenzio.
Le grandi finestre sono oscurate da pannelli neri, la porta che da sul balconcino – costantemente preda dei flash dei turisti giù nella piazza – è tassativamente chiusa a chiave. Tutto è avvolto da una luce gialla, polverosa, quasi nebbiosa, che illumina solo le opere dando così l’impressione che galleggino senza peso.
Fuori la primavera chiassosa del terzo settore, dentro l’aura spirituale di un non luogo.
Sulla destra due grandi tele, paesaggi astratti, si stagliano l’una accanto all’altra raccontando con un’eco remota di macerie bruciate e disastri edilizi, quello che potrebbe forse essere o essere stato.
In tre trittici verticali si presenta poi una muraglia sospesa di colori caldi e tagli di terrazzamenti, che costituiscono le due ali esterne, mentre al centro fanno la loro comparsa tre grandi Essenze.
Nell’angolo in basso a sinistra della composizione di quadri è collocato Sassella, del 2008, un po’ l’antesignano di tutta la ricerca presentata dall’artista in questa esposizione. L’opera, ispirata ai terrazzamenti valtellinesi, si trova ad essere il capostipite della lunga serie metamorfica delle impronte-essenze.
Impronte
Una volta superato lo shock luminoso e sonoro dell’ingresso nella pancia del Broletto, la prima cosa ad attrarre l’attenzione è una lunga striscia di quadrate cellule lucenti che dal pavimento attraversa tutta la sala fino ad arrampicarsi sulla parete contigua.
Come un percorso di briciole di pane per non smarrirsi nel proverbiale bosco, la linea tratteggiata di piccole impronte è un invito a riscoprire volta per volta la singola essenza celata sotto strati di incomprensione e maschere. Il percorso è sia metaforico che effettivo, non solo per chi osserva, ma per l’artista stessa che inizia la sua ricerca proprio viaggiando e guardandosi intorno. Così nasce l’idea di un’identità fondamentale tra quella che è la superficie terrestre e la superficie dell’essere umano: la terra, con i suoi solchi effimeri e irripetibili, e la pelle, unica e caratterizzante per ciascun individuo. Stesso discorso con le cortecce degli alberi che, osservate al microscopio, si fanno impronte digitali su un piccolo supporto di betulla. Ma la somiglianza non è più sufficiente all’artista che procede nella sua ricerca dello strato più nascosto dell’esistente, sia pittoricamente che verbalmente: quelle che chiamava impronte digitali diventano più semplicemente impronte per poi approdare allo stadio ultimo di Essenze.
Le Essenze rappresentano una sorta di auspicio, un invito a non fermarsi alla realtà materiale, fenomenale, della persona, ma ad avventurarsi più giù, più in fondo, più sotto… ad avvicinarsi il più possibile a quella che è appunto, l’essenza.
Quadro percorribile
Angolo a destra della grande sala. Inaspettata incarnazione tridimensionale della bidimensionalità di un quadro. Emerge una grande opera misteriosa.
Da davanti, in prospettiva, è la resa – dilatata all’estremo – di un quadro con le sue stratificazioni e l’alternarsi dei differenti ritmi dei materiali; avvicinandosi si scopre che il quadro è attraversabile, non solo allegoricamente, questa volta. Tra gli strati di materia sono lasciati dei passaggi in modo che non sia solo lo sguardo ad essere coinvolto, ma tutti i sensi, in un’ottica percettiva totalizzante. Passandoci in mezzo, i pannelli – sovrapposti come una serie di quinte teatrali – oscillano per lo spostamento dell’aria: si sentono, così, il fruscio della sabbia, lo stridio della ghiaia, il soffio dell’organza. Graffiano la pelle, le reti metalliche, e sembrano scottare sul palato, le superfici bruciate. Una musica ancestrale e una fragranza ottundente, create appositamente, completano il cerchio contribuendo a collocare in uno spazio non bidimensionale – come un quadro – , nemmeno tridimensionale – come una scultura – , bensì quadrimensionale – come non può non essere – rendendo esplicita la percezione temporale.
Saviana Camelliti
Quando dipingo mi immergo in un lungo respiro solitario che mi permette di andare in profondità scendendo nell’intimo di me stessa, senza distrazioni, scoprire prospettive nuove che ispirano magia da trasformare sulla tela.
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